IN RICORDO DI CLAUDIO COLBERTALDO
di Lorenzo Matassa
Era una regata di lunga distanza.
Dalla spiaggia di Mondello avremmo dovuto raggiungere San Vito Lo Capo.
Già dal primo mattino le bandiere dell’Allbaria avevano sventolato a maestrale.
Se l’esperienza ci suggeriva qualcosa, sarebbe stata una navigazione difficile.
Quella iniziale brezza avrebbe, di lì a poco, implementato la sua forza.
La previsione era di circa trenta nodi Ovest – Nord Ovest.
Era come dire: boline, boline e ancora boline…
Tutto al trapezio e senza soluzione di continuo fino all’arrivo.
Claudio aveva a lungo ispezionato il cielo sopra la baia.
Aveva poi cominciato ad armare il catamarano con l’energia di gesti forti e misurati.
Ad ogni fase di quel procedere attento, guardava l’orizzonte e sorrideva.
“Sei pronto?” – mi diceva sornione.
E con un cenno alludeva alle prime spume bianche del mare già visibili in lontananza.
“Sì, Capitano, O mio Capitano! Sono il tuo prode Prodiere e sono pronto a tutto se solo tu saprai guidarmi…”
Scherzavo, ricordandogli le famose parole del film “L’attimo fuggente”.
Ci abbracciammo.
Per consolidare, nel gesto, la nostra vicinanza e l’impegno a vincere.
Felici di misurarci, ancora una volta, con il mare e le sue intemperanze.
Certi che per ogni spruzzo di acqua salata ci avrebbe inondati, sarebbe stato come la carezza benevola della natura a due sfidanti tanto fragili quanto indomiti.
Fu una delle regate più dure che facemmo insieme.
Per diverse ore cercammo di destreggiarci tra sibili di vento e beccheggi vertiginosi.
Quell’orizzonte d’arrivo sembrava, però, inafferrabile come un miraggio.
Le onde, polverizzate dalla forza di Eolo, ci colpivano con una violenza estrema.
Ogni colpo di quell’acqua frammentata sembrava un pugno inflitto sulla nostra pelle.
Il sale ci penetrava il derma e tatuava indelebilmente la nostra anima marina.
A quasi metà del percorso i crampi si impossessarono delle mie gambe.
Ero al trapezio da quattro ore e ogni planata degli scafi sulle onde richiedeva una sensibilità di sforzo atletico oramai divenuta impossibile.
“Claudio, torniamo indietro, non ce la faremo mai…”
Mi guardò come se avessi tradito il patto di fede, l’abbraccio datogli all’alba della sfida.
Con gli occhi rivolti all’orizzonte lanciò la sua risposta, ma la sua voce non era per me.
La gridò a colui che, forse, poteva udire tutte le voci del mondo.
“Noi arriveremo al traguardo, dovesse arrivare la tempesta!
Ci arriveremo. Dovessimo lottare fino a domani e per i giorni a venire!”
Meditai per un attimo quella sfida rivolta all’infinito che il mare ed il cielo nascondevano.
Prima che un’onda mi sommergesse per l’ennesima volta riuscii a dire con un sorriso:
“Sì, Capitano. O mio Capitano…”
Il Dio di cui tutti parlano deve avere avuto simpatia per noi e per la nostra irriverente follia.
Ci salvò dai flutti e ci premiò pure, regalandoci il suo miglior dipinto.
Giungemmo al porto di San Vito tra schegge di luce rossastra del tramonto.
Se ad una piccola immortalità potevamo aspirare, ebbene, quell’istante ci regalava l’infinito.
Lo stesso infinito che quelle luci dipingevano sul tuo volto, sul tuo limpido sorriso.
Ti ho voluto bene, Capitano, O mio Capitano.
E se ho sbagliato è perché, a volte, le tempeste della vita disorientano i pensieri.
Che la terra Ti sia lieve – amico di mille avventure – e Ti accarezzi il mio affetto riconoscente, come la brezza del mare di Mondello nei pomeriggi caldi d’estate…
Lorenzo Matassa